mercoledì 30 settembre 2009

Camera, PD e UDC assenti salvano lo scudo di Tremonti

Ieri il Fatto domandava: “Ma il Pd dov'è?”. Ieri, puntuale, il Pd ha risposto: siamo momentaneamente assenti. Almeno fino al congresso. Purtroppo il Parlamento non si ferma: ieri si votava la pregiudiziale di incostituzionalità dell'Italia dei valori contro scudo fiscale (tutte le opposizioni si erano associate). Risultato: presenti 485, votanti 482, astenuti 3, maggioranza 242. Contro lo scudo 215, a favore 267. Traduzione: malgrado la ressa sui banchi del governo, Pdl e Lega sarebbero andati sotto (70 assenze su 329) e lo scudo sarebbe stato bocciato. Peccato che in aiuto del centrodestra sia arrivato il soccorso “rosa”. Quasi un deputato Pd su quattro era altrove (28% di assenze, 59 su 216). Quasi al completo i dipietristi (24 su 26). Più virtuosa del Pd è stata persino l'Udc (8 assenti, 29 al voto su 37). Bastavano 27 deputati di opposizione, quindi, per seppellire il mega-condono. Domani pubblicheremo i nomi degli assenteisti salvascudo. Ma quattro a caso ve li anticipiamo: Franceschini, Bersani e D'Alema. I veri leader.

da Il Fatto Quotidiano

Il muro è crollato davvero

di Paolo Ferrero

L’affermazione della Linke e il crollo dei socialdemocratici nelle elezioni tedesche ci parlano con chiarezza del fallimento della sinistra moderata e della possibilità di costruire una sinistra anticapitalista in Europa. Il voto tedesco viene confermato dalle elezioni Portoghesi dove i socialisti che erano al governo perdono la maggioranza assoluta a le forze della sinistra di alternativa, Bloco de Esquerda e CdU (unione elettorale dei comunisti con i verdi), sorpassano il 17% crescendo di tre punti percentuali.

Dopo il crollo delle socialdemocrazie nelle elezioni europee, l’SPD esce sconfitta dall’esperienza della coalizione con la CDU. Non si tratta di una sconfitta tattica: è l’impianto strategico che ha guidato le socialdemocrazie nella costruzione dell’Europa, da Maastricht in avanti, che cade sotto i colpi della crisi. E’ la linea politica della sinistra moderata degli ultimi vent’anni che con ogni evidenza non regge più. Dentro la crisi, larghi strati di lavoratori chiedono di farla finita con le politiche moderate che vengono giustamente ritenute le responsabili della crisi e del peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro.

Parallelamente cresce la sinistra di alternativa che , come afferma Oskar Lafontaine a proposito della Linke “è l’unico partito contro il sistema attuale”. Non quindi una sinistra appiattita sulla socialdemocrazia o incapace di pronunciarsi in termini chiari contro la guerra: cresce una sinistra vera, che pone un’alternativa di sistema a partire da un proprio disegno strategico anticapitalista. La stessa cosa vale per il Portogallo, dove la polemica tra la sinistra e il governo socialista ha caratterizzato la campagna elettorale.

Vi è un terzo aspetto da sottolineare. Da queste elezioni esce sconfitta l’idea di riorganizzare le forze politiche attorno ad uno schema bipolare. In Germania oggi vi sono 5 partiti al di sopra del 10% e la stessa CDU che ha vinto le elezioni lo ha fatto perdendo voti. Se l’alternanza tra simili o la grande coalizione – con il corollario dei tentativi di distruzione della sinistra - erano formule per noi sbagliate ma che corrispondevano ad un sentire comune nella fase della crescita economica, la crisi sta mettendo in crisi questo progetto. Parti significative dalla popolazione non si riconoscono più nel “buonsenso” delle classi dominanti. Ovviamente affinché questa perdita di credibilità delle ipotesi centriste possa dare risultati positivi è necessario costruire una sinistra degna di questo nome, in grado di rappresentare un punto di riferimento serio e credibile. Altrimenti la strada è quella della delusione, del non voto, della ricerca a destra di una alternativa.

Queste elezioni mettono anche la parola fine ad una discussione tutta italiana sulla persistenza o meno delle due sinistre e sulla validità di questa divisione. Non solo in tutta Europa abbiamo due sinistre ma è del tutto evidente che la socialdemocrazia non è in grado di fuoriuscire per linee interne dal suo indirizzo socialiberista. Questa è precisamente l’illusione che abbiamo coltivato noi in Italia quando siamo andati al governo ed è questo errore grossolano che ci ha portato alla sconfitta. Le elezioni tedesche ci parlano quindi della possibilità e della necessità di costruire una sinistra di alternativa su scala nazionale e continentale, come hanno saputo fare i nostri compagni latinoamericani. Autonomia dalle forze moderate e progetto strategico alternativo al socialiberismo sono i pilastri su cui costruire questa sinistra.

Da queste brevi considerazioni derivano a mio parere anche i nostri compiti.

In primo luogo la necessità di costruire la federazione della sinistra di alternativa, dei comunisti, della sinistra vera. Un polo della sinistra, autonomo e strategicamente alternativo al PD. Vogliamo costruire questa federazione coinvolgendo tutti i compagni e le compagne disponibili, iscritti o non iscritti ai partiti, attivi nei sindacati, nei comitati, nelle associazioni, nei movimenti. Proponiamo di cominciare da subito e dal basso, in ogni quartiere, in ogni città, questo processo costituente di uno spazio pubblico della sinistra non pentita. La costruzione della federazione è tutt’uno con la costruzione di un movimento di massa per l’uscita da sinistra dalla crisi capitalistica, contro il berlusconismo ma anche contro le politiche padronali e moderate decise al G20 di Pittsburg.

In secondo luogo dobbiamo rilanciare la battaglia contro il bipolarismo. Questo sistema elettorale garantisce a Berlusconi una rendita di posizione enorme: pur essendo minoranza nel paese ha la maggioranza assoluta dei parlamentari; inoltre il sistema bipolare è finalizzato a stritolare la sinistra. Non è un caso che Germania e Portogallo abbiano sistemi elettorali proporzionali, ove la sinistra è potuta crescere al di fuori del ricatto del voto utile. La campagna contro questo bipolarismo degli affari deve essere ripresa con forza e diventare un tratto costitutivo della nostra proposta politica.



venerdì 25 settembre 2009

INCHIESTA LETTA, ANZI NON LETTA

di Marco Travaglio

Di questo passo, saremo costretti a pubblicare l'elenco sempre più scarno dei ministri non indagati né condannati. Oggi tocca ad Angelino Jolie, inopinatamente ministro della Giustizia: la sua augusta persona, come rivela sul Fatto Antonio Massari, è sotto inchiesta al Tribunale dei ministri per abuso d'ufficio. In soldoni, avrebbe sabotato la Procura di Bari che indaga sul collega Raffaele Fitto (e su tante altre belle cosette) con ispezioni ministeriali e altre manovre telecomandate dallo stesso Fitto. Infatti è indagato anche Fitto, l'uomo che candidò nella sua lista personale Patrizia D'Addario e Barbara Montereale di ritorno da Palazzo Grazioli. Ma per lui non è una novità: il ministro degli Affari regionali (soprattutto affari) è imputato in Puglia per altri due scandali e tre anni fa sarebbe finito in manette se non si fosse rifugiato appena in tempo in Parlamento. Per Angelino, invece, è la prima volta. Sale così a dieci (su 62) il numero dei membri del governo Berlusconi nei guai con la giustizia. Oltre al Cavaliere, recordman mondiale, ricordiamo Bobo Maroni, condannato per resistenza a pubblico ufficiale per aver picchiato dei poliziotti e dunque ministro dell'Interno; Umberto Bossi, pregiudicato per la tangente Enimont e per istigazione a delinquere; Roberto Calderoli, indagato per ricettazione di presunti soldi in nero da Fiorani; Altero Matteoli, imputato per favoreggiamento a Livorno; Raffaele Fitto, imputato a Bari per corruzione, turbativa d'asta e interesse privato; e ora Alfano, cui Mastella ha sottratto il primato di primo Guardasigilli sotto inchiesta in 150 anni di storia. Poi ci sono viceministri e sottosegretari: Gianni Letta, indagato a Lagonegro per truffa, abuso e turbativa d'asta; Nicola Cosentino, inquisito per rapporti con i Casalesi; Aldo Brancher, salvo per prescrizione in un processo per finanziamento illecito. Qualche buontempone ha spiegato l'assalto dei nostri lettori alle edicole col fatto che saremmo "il giornale delle procure", specializzato nel "genere giudiziario". Curiosa tesi, da parte di chi (un giornale a caso) l'altro giorno titolava in prima pagina "Di Pietro indagato", per una vecchia storia da cui è già uscito prosciolto in sede civile e penale, ma ancora pendente alla Corte dei Conti. In realtà noi siamo specializzati - con tutti i nostri limiti ed errori, come tutti i giornalisti del resto del mondo - nelle notizie. Quella sul caso Alfano & Fitto è un'esclusiva di Massari. Ma quella su Letta e le altre che abbiamo già raccontato e racconteremo non sono frutto di una nostra particolare bravura. Ma della censura e dell'autocensura che regna nella gran parte della tv e della stampa italiane. Basta guardare come viene trattato lo scandalo mondiale dello scudo fiscale, che per una rilevazione di Sky vede contrari il 74% degli italiani e secondo la Procura di Milano salverà i 552 mega-evasori fiscali della "lista Pessina" (quella pubblicata a puntate da Libero, almeno fino all'altroieri). Molti colleghi, anche di grandi giornali, ci chiamano per regalarci notizie esclusive che i loro giornali non vogliono o non possono pubblicare pernon disturbare gli editori e amici degli amici. Non sempre siamo noi che arriviamo primi: sono gli altri che scappano prima. Nel pugilato si chiama vittoria per abbandono dell'avversario. Nel giornalismo italiota si chiama, parlando con rispetto, conflitto d'interessi.


(25 settembre 2009)

Da Il Fatto Quotidiano

giovedì 24 settembre 2009

RICE ART IN ITALIA. UN CALCIO AGLI OGM!


ROMA, Italia — Greenpeace: "Abbiamo portato la "rice art" anche in Italia". Un enorme disegno di circa 800 metri quadri è comparso in una risaia biologica nella provincia di Milano. Gli attivisti hanno lavorato diverse ore per tracciare la sagoma dello stivale italiano che calcia via gli OGM.

L'obiettivo è proteggere il riso e l'agricoltura italiana dalla minaccia dell'ingegneria genetica nel settore agro-alimentare. A livello europeo, infatti, presto si dovrà votare per l'autorizzazione all'importazione del riso Ogm della Bayer(LL62), modificato per resistere a un erbicida tossico, il glufosinato. Il glufosinato è considerato così pericoloso per gli esseri umani e per l'ambiente che presto sarà vietato in Europa.

L'Italia è il principale produttore di riso e di biologico a livello europeo, che senso ha rischiare col riso transgenico? Anche la Bayer ha ammesso che questo riso potrebbe accidentalmente germinare, col rischio di contaminare la produzione nazionale. Tutto ciò mentre permangono i dubbi sulla sicurezza per il consumo animale e umano degli OGM. Vogliamo mandare un messaggio forte al governo italiano e alle autorità europee per impedire l'importazione del riso transgenico.

"Il disegno è stato realizzato in un campo di riso della varietà "volano" in un'azienda convertita al biologico da ormai 20 anni, e compresa nel territorio del Parco del Ticino. L'attività di Greenpeace si è svolta con l'appoggio del Parco.

Da anni facciamo campagna per un'agricoltura e una produzione di alimenti NON-OGM, basati su principi di sostenibilità, protezione della biodiversità e in grado di fornire a tutte le persone l'accesso a cibi sicuri e nutrienti. L'ingegneria genetica è una tecnologia non necessaria e non voluta che contamina l'ambiente, minaccia la biodiversità e pone rischi inaccettabili per la salute.

Sul nostro sito è possibile partecipare alla petizione online per chiedere ai governi e autorità europee di proteggere i consumatori, gli agricoltori e le coltivazioni rifiutando il riso Ogm della Bayer e bloccando tutte le sperimentazioni in ambiente di riso Ogm."



mercoledì 23 settembre 2009

Ecco Il Fatto Quotidiano













Esce nelle edicole il quotidiano di Antonio Padellaro che conta già 28000 abbonati. Niente finanziamenti pubblici e proprietà in mano ai redattori per garantire indipendenza. Tra le firme Gomez, Colombo e Travaglio
Dopo mesi di Ante-Fatto, arriva nelle edicole il quotidiano diretto da Antonio Padellaro, che può già contare su 28000 abbonati. Non in tutte, però. Per il lancio, infatti, sono state scelte solo le città maggiori, per tagliare i costi di distribuzione. Avvio ottimistico: prima delle 8 esaurite tutte le copie in molte rivendite milanesi.

1,20 euro per sedici pagine, sei giorni a settimana, Il Fatto Quotidiano si presenta come un caso, raro in Italia nel cartaceo, di editoria pura: la proprietà è dei redattori e di piccoli azionisti e non verranno percepiti i finanziamenti pubblici.

Redazione giovane e di spicco (16 giornalisti in media tra i 30 e i 40 anni, tra cui Luca Telese, Beatrice Borromeo, ma anche Furio Colombo, Peter Gomez, Marco Lillo e Marco Travaglio) per un target che si annuncia giovane: "Il 60% degli abbonati ha scelto la versione pdf del giornale", ha detto Padellaro. Segno che anche i giovani sono interessati alla politica e all'approfondimento

Prima pagina del primo numero dedicata a Gianni Letta, indagato per abuso d'ufficio, turbativa d'asta e truffa aggravata.

C'era da aspettarselo, per un nuovo giornale che si voglia abbia come riferimento l'ex pubblico ministero Antonio Di Pietro e che comprende tra i suoi giornalisti alcuni magistrati. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, come riferisce appunto il giornale diretto da Antonio Padellaro, sarebbe indagato dalla procura di Lagonegro, in provincia di Potenza.



Come era nelle attese quindi, il nuovo quotidiano si contraddistingue subito per una scelta di tipo politico-giudiziario, per una linea di inchiesta che andra' presumibilmente a cercare, anche in futuro, notizie (o presunte tali) legate al mondo dei pubblici ministeri e delle loro attività e relative a questo o a quel politico, nazionale o locale che sia.



In prima pagina, di spalla, l'editoriale di presentazione del direttore, dal titolo "Linea politica la Costituzione".



''Ci chiedono - scrive Padellaro - quale sarà la vostra linea politica? Rispondiamo: la Costituzione della Repubblica''. Il direttore de Il Fatto sottolinea che ''questa non è retorica ma drammatica realtà. Cosa c'è di più rivoluzionario, in un Paese dove ogni giorno la legge viene adattata ai capricci dell'imperatore e dei suoi cortigiani? E l'art. 21 quando afferma che l'informazione non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure? Vi sembra che il direttore del Tg1 ne tenga conto quando decide che gli italiani non devono sapere nè delle prostitute a casa Berlusconi nè degli insulti di Brunetta?''.



Padellaro chiarisce che Il Fatto sarà ''un giornale d'opposizione. A Berlusconi certo'' ma ''non faremo sconti ai dirigenti del Pd e della multiforme sinistra che in tutti questi anni non è riuscita a costruire uno straccio di alternativa. Troppi litigi, troppe ambiguità''.


da www.affaritaliani.it


Le regioni non vogliono l'atomo

di Guglielmo Ragozzino
da Il Manifesto



Una corsa contro il tempo. La legge 99 del 23 luglio 2009, su «Sviluppo, internazionalizzazione delle imprese ed energia», pubblicata il 31 luglio, poteva essere impugnata dalle Regioni entro due mesi. Trascorso il periodo, il governo avrebbe deciso in totale autonomia dove collocare le sue otto/dieci centrali nucleari, i famosi siti, oggetto di preoccupazioni dei cittadini. Non finirà così. Cinque Regioni: Calabria, Toscana, Liguria, Piemonte, Emilia Romagna hanno impugnato la legge e nelle prossime ore altre lo faranno. Nella dichiarazione di Vasco Errani, governatore dell'Emilia Romagna che si è unito per ultimo alla lista dei ricorrenti compare il concetto di «intesa forte» che si deve stabilire tra Stato e Regione, nel rispetto del ruolo e della funzione di entrambi, in via preliminare a ogni autorizzazione. «Non è possibile che l'eventuale contrarietà di una Regione ad accogliere un impianto possa essere considerata alla stregua di un semplice parere non vincolante. Per questo abbiamo deciso il ricorso alla Corte». Iinsomma, in tema specifico nucleare l'Emilia Romagna non dice né sì né no. Gli ambientalisti avranno il loro da fare per orientare e convincere tutti. Il governo ha fatto un errore di faciloneria. Si è fidato troppo della disattenzione delle ferie. Non ha tenuto conto della presenza delle associazioni ambientaliste, Wwf, Legambiente, Greenpeace che l'11 settembre hanno inviato una lettera di 12 righe ai presidenti delle Regioni e agli assessori all'Energia e all'Ambiente per ricordare loro che la legge avrebbe escluso i territori da loro amministrati dalla scelta dei siti; e che avrebbero anche dovuto sopportare l'affidamento a imprese private senza avere voce in capitolo, tranne un parere non vincolante in sede di Conferenza unificata Stato Regioni. Il Governo aveva anche pensato di sondare il terreno con una serie di indiscrezioni sulle aree da utilizzare per le centrali e per la discarica finale delle scorie nucleari, facendo seguire a ogni indiscrezione una smentita. Pensava di causare sufficiente sconcerto, evitando contrasti da parte delle Regioni: seminare il dubbio e irridere alle preoccupazioni «immotivate», mettendo tutti contro tutti. La sollecitazione degli ambientalisti conteneva due punti chiave: per legge, l'iter avrebbe scavalcato il «territorio», ridotta la possibilità d'informazione dei cittadini, rischiato di militarizzare gli impianti la cui localizzazione sarebbe stata decisa, prevedibilmente, nei fatti, da operatori privati. Con il secondo punto si richiamavano le Regioni a decidere rapidamente, perché i termini di un possibile ricorso da parte loro alla Corte costituzionale erano in scadenza. Comunque la pensassero, in ordine alle centrali nucleari, toccava a esse Regioni il compito di tutelare la democrazia del paese e la trasparenza della procedura. La decisione della Corte nel conflitto sollevato dalle Regioni non sarà presa in un lasso di tempo breve. Non, con tutta probabilità, prima delle elezioni regionali di primavera. Al momento del voto vi saranno candidati contrari al nucleare in Regione e altri favorevoli, oppure accusati - e questo sarà ancora peggio - di non avere aperto bocca, di non avere difeso il territorio con abbastanza coraggio. Ma si pensi al caso della Sardegna, dove si è già votato per le elezioni regionali. Nell'isola circolano le voci più feroci, riportate per esempio da La nuova Sardegna del 9 settembre. Partendo dal presupposto che la Sardegna è l'area più stabile dal punto di vista sismico, le si attribuiscono tre se non quattro centrali nucleari, tutte «quelle che il governo intende costruire, anche se poi bisognerebbe risolvere il problema del trasferimento dell'energia». ma come è ovvio la Sardegna, a partire dalla sua amministrazione regionale di destra, non accetta il ruolo di sfogo nucleare ed elettrico per tutta l'Italia continentale.

(23 settembre 2009)

martedì 22 settembre 2009

Bolognetti (Radicali) e Frammartino (Rifondazione) diffidano l’Autorità di bacino su Marinagri

Maurizio Bolognetti segretario dei Radicali lucani, e Ottavio Frammartino,
segretario provinciale di Rifondazione comunista, non mollano la presa su “Marinagri”,il complesso turistico al centro dell’inchiesta “Toghe lucane”. Con un atto stragiudiziale, Bolognetti e Frammartino hanno invitato «l'Autorità di bacino ad avviare un procedimento amministrativo, in via di autotutela, per l'annullamento » della sanatoria concessa ai proprietari del villaggio turistico. Non solo hanno anche chiesto «all’asssessore all'Urbanistica e al dirigente del Settore urbanistica del Comune di Policoro, di avviare procedimenti in via di autotutela per l'annullamento dei permessi già rilasciati». La vicenda Marinagri nasce nel mese di aprile del 2008, quando «l'autorità giudiziaria di Catanzaro sottoponeva a sequestro preventivo, per vari profili di violazioni di leggi penali, il complesso turistico in corso di costruzione alla foce del fiume Agri». Contro il sequestro «la società Marinagri - questa la ricostruzione di quanto accaduto fatta da Bolognetti e Frammartino - ha proposto prima ricorso al Tribunale del Riesame, che lo ha rigettato, e poi innanzi alla Corte di Cassazione che ha confermato sia l'operato del giudice per le indagini preliminari che quello del Riesame. La Cassazione ha confermato il sequestro sottolineando come «i lavori di costruzione abbiano avuto luogo con provvedimenti considerati illegittimi e in particolare come le opere siano state costruite in violazione dello strumento urbanistico all'epoca vigente». Quanto deciso dalla Suprema Corte «comporta, come logica necessaria conseguenza, l’impossibilità di concedere la sanatoria in quanto questa è possibile quando le opere siano conformi allo strumento urbanistico vigente al momento dell'accoglimento dell'istanza e al momento della realizzazione delle opere». E poiché «la costruzione - ribadiscono Bolognetti e Frammartino - è stata effettuata in violazione dello strumento urbanistico, ogni istanza di sanatoria non può che essere rigettata». Come se non bastasse il complesso turistico in costruzione è situato in un comprensorio di terreni che apparteneva all'Alsia, che è succeduta all'Esab (Ente di sviluppo agricolo in Basilicata)che a sua volta era succeduto all'Ente di riforma Fondiaria. L’Alsia, tra l’altro, «avrebbe avviato azione giudiziaria per la restituzione dei terreni». La costruzione del complesso turistico, tra l’altro, sarebbe «avvenuta a seguito di un provvedimento dell'Autorità di bacino che avrebbe consentito l'edificazionein aree prima classificate come inondabili a condizione che: venissero innalzati gli argini nella misura di un metro con continua manutenzione degli stessi e si imponesse alla società Marinagri di presentare, all'Autorità di bacino, una relazione sullo stato degli argini
con cadenza biennale, pena la revoca delle autorizzazioni ». Il sequestro della struttura fu disposto«anche perché si riteneva non legittima l'acquisizione di aree in via gratuita e per circa 30 ettari in virtù dell'istituto dell'accessione in verità non applicabile». Visto che «la sanatoria delle opere costruite non è possibile per espresso divieto di legge; che le avviate azioni
dell'Alsia riverberano i loro effetti sulla legittimità dei permessi di costruire; che le clausole imposte dall'Autorità di bacino in ordineall'innalzamento degli argini e alla loro manutenzione appaiono illegittime per eccesso di potere per manifesta irragionevolezza contraddittorieta' violazione dei principi generali dell'ordinamento giuridico in quanto il fatto che si disponga l'innalzamento degli argini e una successiva verifica altro non significa che non vi è certezza
di evitare la inondabilità delle aree in caso di eventi atmosferici di particolare intensità; l'imposizione del vincolo di verifica con cadenza biennale, sotto pena di revoca delle autorizzazioni concesse, porrebbe problemi gravissimi giacchè dove la
società non presentasse le relazioni (come per altro si è già verificato) che cosa accadrebbe relativamente ai fabbricati costruiti che diverrebbero illegittimi? Se dalle successive relazioni biennali emergessero necessità di effettuare ulteriori manutenzioni ed innalzamenti e la società non provvedesse, chi dovrebbe sostituirsi? I proprietari delle costruzioni, ed in base a quale titolo? Oppure il Comune, o il Consorzio di Bonifica o altri enti e con quali fondi?. Nel caso la società venisse posta in liquidazione dopo la costruzione del complesso turistico, gli obblighi a chi dovrebbero essere trasferiti? Se l'onere ricadesse sui nuovi proprietari, è stata forse prevista una convenzione da registrare e trascrivere in maniera che tutti i proprietari di immobili in Marinagri possano essere obbligati ai necessari esborsi? ». Insomma la sanatoria concessa dall'Autorità di bacino sarebbe «illegittima ed irragionevole».
( Tratto dal Quotidiano della Basilicata)

domenica 20 settembre 2009

Demagogia al governo

di MICHELE SERRA


Ci sono "élite di merda che vivono di rendita" e tramano contro il governo e dunque contro il popolo sovrano. Così, in sintesi, ha detto ieri il ministro Brunetta, entusiasmando una platea amica e disgustando una volta di più l'altra metà degli italiani, si suppone in rappresentanza delle élite di merda.


Brunetta è il classico fanatico: uno che quando parla gli saltano uno dopo l'altro i freni inibitori, e gli esce fumo dalle orecchie. In quanto tale, in una fase così aspra dello scontro politico, ascoltarlo aiuta a mettere a fuoco almeno alcuni dei sentimenti profondi che muovono questa maggioranza. A partire dal fascismo, l'odio per le élite (vedi il complotto demo-pluto-giudo-massonico) è un classico del populismo autoritario. Ricchi malvagi, gelosi dei loro privilegi, tramano nell'ombra per contrastare l'avvento luminoso di una nuova era.


Gli archivi di Libero e del Giornale, quando gli storici vorranno occuparsene, sono da questo punto di vista una illuminante e annosa collazione di tutto o quasi il malanimo che la piccola borghesia di destra, elettrice dei Brunetta e lettrice dei Feltri, nutre per le cosiddette élite: gli Agnelli, la borghesia azionista, De Benedetti e Scalfari, gli intellettuali altezzosi, Miuccia Prada (?!), i professori snob, gli urbanisti, i cineasti, i radical chic, secondo una classificazione biliosa e scriteriata che non discende tanto dal reddito e tantomeno dalle persone, quanto, diciamo, dall'immagine sociale, vera o presunta, dei bersagli via via individuati. In blocco, e un tanto al chilo, essi sarebbero la spina dorsale di una sinistra debosciata, scroccona e classista. (Va da sé che i circa diciotto milioni di elettori di centrosinistra, forse non tutti urbanisti o rettori, per comodità non vengono inclusi nel quadro polemico: non è mai la realtà, è il suo fantasma a favorire le ossessioni politicamente più produttive).


Se il ministro Brunetta, piuttosto che un iracondo e un demagogo, fosse una persona ragionevole, e davvero parlasse per conto del popolo italiano e nei suoi interessi, saprebbe che il nostro Paese, nell'ultimo paio di secoli, ha molto patito non già a causa delle élite, ma della loro gracilità, o mancanza. Se, per esempio, la grande borghesia conservatrice non fosse stata spazzata via (vedi l'affaire Montanelli, vedi la morte di Ambrosoli, vedi eccetera eccetera) dalla piccola borghesia reazionaria e malaffarista che ha schiantato il senso dei diritti e il senso dei doveri, e oggi regge il timone del Paese, magari avremmo ancora ministri come Visentini e non come Brunetta e Bondi, altro fazioso vaniloquente.


Destra e sinistra, in tutto questo, sono un criterio piuttosto confuso, quasi un velame. Meglio varrebbe (e in questo, bisogna ammetterlo, il socialista Brunetta ci aiuta parecchio) provare a riclassificare lo scenario socio-politico italiano secondo i vecchi criteri dell'analisi di classe. Il poco che rimane della borghesia antifascista (certamente un'élite) e della classe dirigente repubblicana e costituzionale (un'altra élite) è l'ultimo argine culturale, etico e storico che si frappone al trionfo incontrastato dei Brunetta, del loro adorato leader e della piccola borghesia reazionaria che li vota in massa. Il loro capo, da solo, ha più potere dei fantasmatici "poteri forti" messi assieme, più denaro, più media, più altoparlanti e più balconi, più giornali, più giornalisti, più servitù e più tutto. Ma, effettivamente, nonostante questo potere fortissimo, Berlusconi non è élite, non è classe dirigente, non è statista (gli statisti uniscono i popoli, non li spaccano a metà come una mela). È potere senza rispetto, ricchezza senza status, popolarità senza prestigio. Brunetta, che è animoso e sincero, avverte nel profondo questa inadeguatezza. Ma piuttosto che investirne, con la dovuta umiltà, se stesso e il suo capo, si aggrappa al popolo e indica nelle "élite di merda" il Nemico da combattere.


In questo Brunetta (come parecchi ex socialisti, ahimè) è il berlusconiano perfetto: pur di non dubitare di se stesso, attribuisce ogni problema alla malvagità del Nemico. Urgerebbe un analista se anche gli psicanalisti non fossero, come è ovvio, una élite di merda.

(20 settembre 2009)



http://www.repubblica.it/2009/09/sezioni/politica/berlusconi-divorzio-29/serra-governo/serra-governo.html

sabato 19 settembre 2009

Pisticci, storie di scorie

Tutte le ombre sui fusti radioattivi
Cinque anni fa un pentito ne indicava la presenza a Coste della Cretagna e a Craco

PISTICCI. Bufala o depistaggio? Sono trascorsi quasi 5 anni da quando il pentito della “ndran - gheta”, nelle sue dichiarazioni all’Espresso, indicava la presenza di un cimitero di scorie nucleari, prima nella zona di Coste della Cretagna (un nome che fino ad allora, solo in pochi conoscevano) nell’agro di Ferrandina, e successivamente nella vallata sotto Craco, una zona tra Piana del Pozzo e Isca di Piano d’Oro).
Sulla vicenda, però, che pure aveva creato panico nell’opinio - ne pubblica del basso materano, è calato un silenzio tombale e nessuno è riuscito a sapere qualcosa sull’esito delle operazioni di ricerca di quel centinaio di fusti che sarebbero stati interrati nella notte tra il 10 e l’11 gennaio del 1987. «Sono sceso a Craco - dichiarava il boss durante un sopralluogo e riportato nel servizio giornalistico del settimanale milanese - non per fare polemiche ma per aiutare la magistratura. Ora lavorino per individuare i fusti. Trovarli mi darebbe enorme soddisfazione, anche se in questi anni potrebbero essere successe molte cose (il riferimento era evidentemente al possibile mutamento morfologico della zona nel corso degli anni, ndr)».
Dopo queste dichiarazioni, il territorio indicato, per una superficie di oltre 60 ettari, sarebbe stato setacciato con idonei strumenti di verifica radiometrica, dal personale specializzato della Forestale in collaborazione con tecnici dell’Arpab. Ufficialmente, però, nessuno ha reso noto l’esito di quelle ricerche effettuate in seguito a quanto indicato dal pentito che, purtroppo, nel suo racconto un po’ inverosimile, affermò anche di non ricordare se i fusti fossero di materiale metallico o di materiale di plastica. Se fosse vera la seconda ipotesi, le ricerche sarebbero state estremamente difficoltose in quanto gli strumenti a disposizione degli operatori avrebbero avuto difficoltà a indicare ad una certa profondità la presenza di fusti non metallici per cui sarebbe occorso più tempo per la verifica (l’allora presidente della Provincia, Car - mine Nigro, informò che per le ricerche sarebbe stato interessato anche Telespazio). Da parte del Governo, fu promossa una missione della Commissione parlamentare di inchiesta sui rifiuti (senza peraltro che si sia mai avuta notizia che abbia visitato i luoghi indicati dal pentito) e per due giorni, nei locali della Prefettura di Potenza ascoltò oltre 50 persone in rappresentanza di 38 enti, oltre ai tecnici del Centro Trisaia di Rotondella, luogo da cui, secondo il racconto del pentito, appunto nella notte tra il 10 e l’11 gennaio 87, a bordo di 40 camion, sarebbero partiti i 600 fusti, 500 dei quali diretti al porto di Livorno e i restanti 100 destinati ad essere seppelliti non si sa bene se nel territorio di Ferrandina o Craco. «Per portare a termine le operazione di verifica - aveva dichiarato il presidente della Commissione, il forzista Paolo Russo - saranno necessari tempi lunghi. Con la speranza che non cadano in prescrizione. Ma noi non molleremo la presa».
Parole esatte le sue, solo che ora, a distanza di oltre quattro anni dall’inizio delle operazioni di ricerca, è mai possibile che nessuno faccia conoscere la verità sull’attendibilità o meno di quello che il boss calabrese riferì al giornalista dell’Espresso? Insomma, i fusti che sarebbero stati interrati, in parte o tutti, sono stati ritrovati? Oppure ci troviamo di fronte ad una grossa bufala? Domande tutte, che attendono sempre una risposta, anche se resta il fatto inquietante: se le dichiarazioni rese dal boss fossero confermate sia pure solo in parte, significa che i sia pur efficienti sistemi di controllo messi in campo durante tutti questi anni, sono stati elusi o resi inefficaci da chi può essere intenzionato a trarre illecito profitto sul traffico di scorie. (tratto dalla gazz.Mezzogiorno di MICHELE SELVAGGI)

venerdì 18 settembre 2009

Afghanistan, un fallimento lungo otto anni


Gianni Cipriani
Roma

ll paradosso del pasticcio afghano è racchiuso in un recentissimo rapporto appena pubblicato dall’Ufficio droghe e crimine delle Nazioni Unite: l’anno scorso la produzione di oppio è calata del 10%. Bene, si dirà. E invece no: male. Anzi malissimo perché il calo non è stato un successo ottenuto dalla forze internazionali o dal governo “democratico”, ma una necessità imposta dai signori della droga per tenere alto il prezzo dello stupefacente. Come mai? Perché nell’Afghanistan “liberato” dai talebani le cose vanno male ma così male che è stato prodotto e venduto molto più oppio di quanto il mercato internazionale potesse smerciarne, con conseguente crollo dei prezzi. Segno inequivocabile del fallimento delle politiche internazionali che hanno riguardato Kabul. Il prossimo ottobre saranno passati 8 anni dall’ intervento militare e dalla liberazione (o occupazione) dell’Afghanistan. In questi 8 anni tutti hanno spiegato la necessità di quell’intervento con il bisogno di democrazia, la lotta al terrorismo, la lotta al traffico di droga, la pace e il rispetto dei diritti umani. Ma cosa di questi obiettivi è stato raggiunto in un tempo che supera di tre anni la durata della seconda guerra mondiale? Niente.O poco. La retorica sulle missioni di pace, sulla lotta agli oscurantisti che imponevano il burka e quant’altro hanno a lungo oscurato l’assenza di qualsiasi strategia concreta. Ma i nodi vengono al pettine. I produttori di droga, protetti ora dai talebani ora dai signori della guerra (talora alleati delle forze internazionali) fanno affari come e più di prima. La popolazione civile muore quotidianamente in attentati e bombardamenti e odia talmente tanto i “liberatori”, da rimpiangere, se non sostenere i talebani. Quanto poi a democrazia, dopo 8 anni se ne vede solo una parvenza, mentre gli osservatori dell’Ue accusano il presidente Karzai di brogli, al cui confronto quello recentemente accaduto in Iran sembra una barzelletta. Quanto ai burka, al rispetto dei diritti umani i passi in avanti sono stati davvero limitati e forse non hanno superato i confini della città di Kabul. Di fronte a questo scenario, che troppo spesso viene taciuto, è del tutto evidente che i nostri militari sono sempre più a rischio. È sbagliato parlare di terrorismo, quando ci sono migliaia di armati sostenuti da gran parte della popolazione. È una guerra – la guerra asimmetrica –combattuta tra forze irregolari e guerriglieri che mordono e fuggono. Anche questo sarebbe bene dirlo con chiarezza. E domandarci, seriamente cosa si può fare per l’Afghanistan, riconoscendo il fallimento di questi lunghissimi 8 anni che hanno prodotto guerra e morte, niente
pace e solo un briciolo di democrazia.


(DNews)

Quel sangue del Sud versato per il Paese

di ROBERTO SAVIANO

Vengo da una terra di reduci e combattenti. E l'ennesima strage di soldati non l'accolgo con la sorpresa di chi, davanti a una notizia particolarmente dolorosa e grave, torna a includere una terra lontana come l'Afghanistan nella propria geografia mentale. Per me quel territorio ha sempre fatto parte della mia geografia, geografia di luoghi dove non c'è pace. Gli italiani partiti per laggiù e quelli che restano in Sicilia, in Calabria o in Campania per me fanno in qualche modo parte di una mappa unica, diversa da quella che abbraccia pure Firenze, Torino o Bolzano.

Dei ventun soldati italiani caduti in Afghanistan la parte maggiore sono meridionali. Meridionali arruolati nelle loro regioni d'origine, o trasferiti altrove o persino figli di meridionali emigrati. A chi in questi anni dal Nord Italia blaterava sul Sud come di un'appendice necrotizzata di cui liberarsi, oggi, nel silenzio che cade sulle città d'origine di questi uomini dilaniati dai Taliban, troverà quella risposta pesantissima che nessuna invocazione del valore nazionale è stato in grado di dargli. Oggi siamo dinanzi all'ennesimo tributo di sangue che le regioni meridionali, le regioni più povere d'Italia, versano all'intero paese.

Indipendentemente da dove abitiamo, indipendente da come la pensiamo sulle missioni e sulla guerra, nel momento della tragedia non possiamo non considerare l'origine di questi soldati, la loro storia, porci la domanda perché a morire sono sempre o quasi sempre soldati del Sud. L'esercito oggi è fatto in gran parte da questi ragazzi, ragazzi giovani, giovanissimi in molti casi. Anche stavolta è così. Non può che essere così. E a sgoccioli, coi loro nomi diramati dal ministro della Difesa ne arriva la conferma ufficiale. Antonio Fortunato, trentacinque anni, tenente, nato a Lagonegro in Basilicata. Roberto Valente, trentasette anni, sergente maggiore, di Napoli. Davide Ricchiuto, ventisei anni, primo caporalmaggiore, nato a Glarus in Svizzera, ma residente a Tiggiano, in provincia di Lecce. Giandomenico Pistonami, ventisei anni, primo caporalmaggiore, nato ad Orvieto, ma residente a Lubriano in provincia di Viterbo. Massimiliano Randino, trentadue anni, caporalmaggiore, di Pagani, provincia di Salerno. Matteo Mureddu, ventisei anni, caporalmaggiore, di Solarussa, un paesino in provincia di Oristano, figlio di un allevatore di pecore. Due giorni fa Roberto Valente stava ancora a casa sua vicino allo stadio San Paolo, a Piedigrotta, a godersi le ultime ore di licenza con sua moglie e il suo bambino, come pure Massimiliano Radino, sposato da cinque anni, non ancora padre.

Erano appena sbarcati a Kabul, appena saliti sulle auto blindate, quei grossi gipponi "Lince" che hanno fama di essere fra i più sicuri e resistenti, però non reggono alla combinazione di chi dispone di tanto danaro per imbottire un'auto di 150 chili di tritolo e di tanti uomini disposti a farsi esplodere. Andando addosso a un convoglio, aprendo un cratere lunare profondo un metro nella strada, sventrando case, macchine, accartocciando biciclette, uccidendo quindici civili afgani, ferendone un numero non ancora precisato di altri, una sessantina almeno, bambini e donne inclusi.

E dilaniando, bruciando vivi, cuocendo nel loro involucro di metallo inutilmente rafforzato i nostri sei paracadutisti, due dei quali appena arrivati. Partiti dalla mia terra, sbarcati, sventrati sulla strada dell'aeroporto di Kabul, all'altezza di una rotonda intitolata alla memoria del comandante Ahmad Shah Massoud, il leone del Panjshir, il grande nemico dell'ultimo esercito che provò ad occupare quell'impervia terra di montagne, sopravvissuto alla guerra sovietica, ma assassinato dai Taliban. Niente può dirla meglio, la strana geografia dei territori di guerra in cui oggi ci siamo svegliati tutti per la deflagrazione di un'autobomba più potente delle altre, ma che giorno dopo giorno, quando non ce ne accorgiamo, continua a disegnare i suoi confini incerti, mobili, slabbrati. Non è solo la scia di sangue che unisce la mia terra a un luogo che dalle mie parti si sente nominare storpiato in Affanìstan, Afgrànistan, Afgà. E' anche altro. Quell'altro che era arrivato prima che dai paesini della Campania partissero i soldati: l'afgano, l'hashish migliore in assoluto che qui passava in lingotti e riempiva i garage ed è stato per anni il vero richiamo che attirava chiunque nelle piazze di spaccio locali. L'hashish e prima ancora l'eroina e oggi di nuovo l'eroina afgana. Quella che permette ai Taliban di abbondare con l'esplosivo da lanciare contro ai nostri soldati coi loro detonatori umani.

E' anche questo che rende simili queste terre, che fa sembrare l'Afganistan una provincia dell'Italia meridionale. Qui come là i signori della guerra sono forti perché sono signori di altro, delle cose, della droga, del mercato che non conosce né confini né conflitti. Delle armi, del potere, delle vite che con quel che ne ricavano, riescono a comprare. L'eroina che gestiscono i Taliban è praticamente il 90% dell'eroina che si consuma nel mondo. I ragazzi che partono spesso da realtà devastate dai cartelli criminali hanno trovato la morte per mano di chi con quei cartelli criminali ci fa affari. L'eroina afgana inonda il mondo e finanzia la guerra dei Taliban. Questa è una delle verità che meno vengono dette in Italia. Le merci partono e arrivano, gli uomini invece partono sempre senza garanzia di tornare. Quegli uomini, quei ragazzi possono essere nati nella Svizzera tedesca o trasferiti in Toscana, ma il loro baricentro rimane al paese di cui sono originari. È a partire da quei paesini che matura la decisione di andarsene, di arruolarsi, di partire volontari. Per sfuggire alla noia delle serate sempre uguali, sempre le stesse facce, sempre lo stesso bar di cui conosci persino la seduta delle sedie usurate. Per avere uno stipendio decente con cui mettere su famiglia, sostenere un mutuo per la casa, pagarsi un matrimonio come si deve, come aveva già organizzato prima di essere dilaniato in un convoglio simile a quello odierno, Vincenzo Cardella, di San Prisco, pugile dilettante alla stessa palestra di Marcianise che ha appena ricevuto il titolo mondiale dei pesi leggeri grazie a Mirko Valentino. Anche lui uno dei ragazzi della mia terra arruolati: nella polizia, non nell'esercito. Arruolarsi, anche, per non dover partire verso il Nord, alla ricerca di un lavoro forse meno stabile, dove sono meno certe le licenze e quindi i ritorni a casa, dove la solitudine è maggiore che fra i compagni, ragazzi dello stesso paese, della stessa regione, della stessa parte d'Italia. E poi anche per il rifiuto di finire nell'altro esercito, quello della camorra e delle altre organizzazioni criminali, quello che si gonfia e si ingrossa dei ragazzi che non vogliono finire lontani.

E sembra strano, ma per questi ragazzi morti oggi come per molti di quelli caduti negli anni precedenti, fare il soldato sembra una decisione dettata al tempo stesso da un buon senso che rasenta la saggezza perché comunque il calcolo fra rischi e benefici sembra vantaggioso, e dalla voglia di misurarsi, di dimostrare il proprio valore e il proprio coraggio. Di dimostrare, loro cresciuti fra la noia e la guerra che passa o può passare davanti al loro bar abituale fra le strade dei loro paesini addormentati, che "un'altra guerra è possibile". Che combattere con una divisa per una guerra lontana può avere molta più dignità che lamentarsi della disoccupazione quasi fosse una sventura naturale e del mondo che non gira come dovrebbe, come di una condizione immutabile.

Sapendo che i molti italiani che li chiameranno invasori e assassini, ma pure gli altri che li chiameranno eroi, non hanno entrambi idea di che cosa significhi davvero fare il mestiere del soldato. E sapendo pure che, se entrambi non ne hanno idea e non avrebbero mai potuto intraprendere la stessa strada, è perché qualcuno gliene ne ha regalate di molto più comode, certo non al rischio di finire sventrati da un'autobomba. Infatti loro, le destinazioni per cui partono, non le chiamano "missione di pace".

Forse non lo sanno sino in fondo che nelle caserme dell'Afghanistan possono trovare la stessa noia o la stessa morte che a casa. Ma scelgono di arruolarsi nell'esercito che porta la bandiera di uno Stato, in una forza che non dispone della vita e della morte grazie al denaro dei signori della guerra e della droga. Per questo, mi augurerei che anche chi odia la guerra e ritiene ipocrita la sua ridefinizione in "missione di pace", possa fermarsi un attimo a ricordare questi ragazzi. A provare non solo dolore per degli uomini strappati alla vita in modo atroce, ma commemorarli come sarebbe piaciuto a loro. A onorarli come soldati e come uomini morti per il loro lavoro. Quando è arrivata la notizia dell'attentato, un amico pugliese mi ha chiamato immediatamente e mi ha detto: "Tutti i ragazzi morti sono nostri". Sono nostri è come per dire sono delle nostre zone. Come per Nassiriya, come per il Libano ora anche per Kabul. E che siano nostri lo dimostriamo non nella retorica delle condoglianze ma raccontando cosa significa nascere in certe terre, cosa significa partire per una missione militare, e che le loro morti non portino una sorta di pietra tombale sulla voglia di cambiare le cose. Come se sui loro cadaveri possa celebrarsi una presunta pacificazione nazionale nata dal cordoglio. No, al contrario, dobbiamo continuare a porre e porci domande, a capire perché si parte per la guerra, perché il paese decide di subire sempre tutto come se fosse indifferente a ogni dolore, assuefatto ad ogni tragedia.

Queste morti ci chiedono perché tutto in Italia è sempre valutato con cinismo, sospetto, indifferenza, e persino decine e decine di morti non svegliano nessun tipo di reazione, ma solo ancora una volta apatia, sofferenza passiva, tristezza inattiva, il solito "è sempre andata così". Questi uomini del Sud, questi soldati caduti urlano alle coscienze, se ancora ne abbiamo, che le cose in questo paese non vanno bene, dicono che non va più bene che ci si accorga del Sud e di cosa vive una parte del paese solo quando paga un alto tributo di sangue come hanno fatto oggi questi sei soldati. Perché a Sud si è in guerra. Sempre.

Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency

(18 settembre 2009)

giovedì 17 settembre 2009

Kabul, cordoglio alle famiglie dei soldati italiani. Ritirare subito le truppe

LA PRESENZA DEI SOLDATI E' INUTILE ANCHE PER LE ELEZIONI. AVVIARE PERCORSO CONFERENZA DI PACE

PRC, PdCI E SOCIALISMO 2000 INDICONO UN SIT IN PER LE ORE 18 SOTTO MONTECITORIO, PER IL RITIRO IMMEDIATO DELLE TRUPPE. LE NOSTRE BANDIERE SARANNO LISTATE A LUTTO

Dichiarazione di Paolo Ferrero, segretario nazionale del Prc-Se

Alle famiglie delle vittime dell'attentato che ha subito un mezzo militare dell'Esercito italiano a Kabul va tutta alla nostra piena solidarietà, il nostro profondo cordoglio e un abbraccio forte, però non possiamo esimerci dal notare come la presenza del contingente militare italiano in Afghanistan è frutto e figlia di una scelta politica e strategica, oltre che militare, assurda e sbagliata.

Le truppe italiane vanno ritirate subito. Peraltro, anche la giustificazione della loro presenza con la necessità di garantire lo svoglimennto di elezioni libere e democratiche, in Afghanistan, è stata del tutto vana e inutile, come dimostrano ed hanno denunciato i colossali brogli subiti dalle opposizioni al governo Karzai, denunce fatte da tutti gli osservatori internazionali, da quelli dell'Onu a quelli dell'Unione Europea. Il governo karzai è un governo fantoccio, succube alla politica statunitense, e odiato dai suoi stessi cittadini.
L'amministrazione Obama, se vuole davvero dare il segno del cambiamento, dall'era Bush, anche in politica estera, sgomberi l'Afghanistan dalle sue truppe, convinca gli alleati occidentali a fare lo stesso e garantisca all'Onu la possibilità di dare il via a una vera, seria e reale conferenza di pace, che va fatta con tutti, anche con i nemici talebani. L'Italia assecondi questo progetto, e torni ad avere un filo di credibilità internazionale, ordinando l'immediato rientro a casa dei nostri soldati.

mercoledì 16 settembre 2009

Garimberti contro Berlusconi "Non offenda i giornalisti Rai"

Caso "Ballarò", La Vigilanza convoca Masi per martedì prossimo
Fnsi: "Chiediamo la diretta della manifestazione di sabato a Roma"


ROMA - "In tutte le democrazie occidentali le tv pubbliche sovvenzionate dal canone criticano governi, coalizioni, partiti e singoli politici senza che nessuno gridi allo scandalo. Gli uomini pubblici e di governo, che pensano che la Rai debba astenersi dal riportare critiche alla loro parte scambiano il servizio pubblico con le televisioni di Stato che operano in regimi non democratici". Il presidente della Rai, Paolo Garimberti, replica duramente alle affermazioni fatte ieri a Porta a porta da Silvio Berlusconi. Ieri sera il Cavaliere, infatti, aveva puntato il dito contro il servizio pubblico italiano, "unico, tra le tv pubbliche, a criticare il governo del proprio paese".


"Il servizio pubblico, come dice la parola stessa - chiarisce Garimberti - è al servizio di tutti i telespettatori, quali che siano le loro opinioni. Completezza e pluralismo dell'informazione ne sono i principi fondanti - continua - e non possono non essere il metodo di lavoro delle nostre redazioni. Il diritto di critica al nostro operato è legittimo, la delegittimazione sistematica e l'insulto no".

Insulti che ieri il Cavaliere non ha lesinato. Trovando oggi l'opposizione di Garimberti. "Ho solidarizzato con Vespa per le offese che gli erano state rivolte, oggi la mia solidarietà va a Raitre, a Ballarò, a Report, ad Annozero e a tutti i lavoratori del servizio pubblico attaccati ieri".

Polemica anche la reazione del presidente della Provincia dell'Aquila, Stefania Pezzopane. "Con la puntata di ieri di Porta a porta abbiamo davvero toccato il fondo - dice in un'intervista a Radio Città Futura - quella di ieri è stata una giornata di gioia (la consegna delle prime case ai terremotati, ndr) guastata in parte dall'indecorosa enfasi data all'evento. Ho sentito dire che era tutto risolto, ma così non è. Ci sarebbe voluta decisamente più sobrietà". Mentre Massimo D'Alema giudica la trasmissione di Vespa "una sorta di bollettino di regime in cui il presidente del consiglio ha fatto finta di consegnare case che in realtà erano prefabbricati forniti dalla provincia di Trento".

Polemica anche la Fnsi che parla di "una delle pagine più vergognose di quello che si fa sempre più fatica a chiamare servizio pubblico" e chiede alla Rai di coprire con la diretta la manifestazione di sabato prossimo.

Si svolgerà martedì prossimo l'audizione del direttore generale della Rai, Mauro Masi, davanti alla commissione di Vigilanza. Una decisione adottata oggi dall'ufficio di presidenza della commissione su proposta del capogruppo del Pd, Fabrizio Morri, dopo il caso Ballarò che, per lo stesso Morri, potrebbe aver causato "un danno all'azienda". La richiesta è stata accolta dal presidente Sergio Zavoli e alla fine anche da Lega e Pdl.

(16 settembre 2009)


http://www.repubblica.it/2009/09/sezioni/politica/berlusconi-divorzio-28/garimberti-rai/garimberti-rai.html

Documento conclusivo CPN presentato dalla Segreteria Nazionale a maggioranza

La crisi capitalistica sta mostrando in modo sempre più evidente i suoi caratteri di crisi strutturale. Le misure assunte dai governi mondiali hanno probabilmente messo a riparo il sistema da verticali collassi finanziari ma non sono in grado di rimetterne in moto lo sviluppo. Il contesto in cui siamo chiamati ad agire nei prossimi anni è quindi un contesto di stagnazione economica prolungata.

La crisi non è però caratterizzata solo dalla recessione. In Italia, mentre il sistema bancario è stato messo sotto protezione dal governo, gli altri settori sono sottoposti ad una gigantesca ristrutturazione che accentua le politiche messe in atto nel ciclo ascendente della globalizzazione: ulteriore precarizzazione del lavoro, privatizzazioni, delocalizzazioni, concentrazioni, speculazioni fondiarie.
L’intreccio tra recessione e ristrutturazione sta determinando una massiccia espulsione di lavoratrici e lavoratori dal mondo del lavoro. Dall’inizio della crisi abbiamo perso quasi un milione di posti di lavoro. Ad oggi questo fenomeno non è ancora pienamente visibile perché si è scaricato soprattutto sul lavoro precario e perché vi è stato un grande uso di Cassaintegrazione in deroga. A partire dall’autunno la perdita di posti di lavoro è destinata ad accentuarsi con licenziamenti e mobilità.

Parallelamente il governo Berlusconi sta tagliando la spesa del settore pubblico e del welfare: dalla scuola alla sanità ai trasferimenti agli enti locali, aprendo così spazi al settore privato. I tagli all’istruzione e alla ricerca, così come quelli al Fondo Unico per lo Spettacolo, determinano non solo una precarizzazione ed espulsione di massa dal lavoro, ma incidono sulla qualità della scuola pubblica, limitano il pluralismo, determinando complessivamente un impoverimento culturale del paese e aprendo artificialmente spazi al settore privato.


Il governo, in generale, non ha politiche finalizzate all’uscita dalla crisi. Non mette in atto politiche anticicliche ma aspetta la ripresa mondiale – tedesca in primo luogo – per far trainare da quella la ripresa dell’economia italiana. Il governo interviene quindi all’interno della crisi, in particolare per utilizzare la crisi al fine di attuare una modifica strutturale dei rapporti di forza tra le classi e una riduzione strutturale della democrazia nel paese. Un progetto che ha al centro la messa in discussione del contratto nazionale di lavoro e la volontà di costruire un modello sociale neocorporativo in cui il sindacato non è più autonomo rappresentante delle lavoratrici e dei lavoratori ma co-gestore di servizi privatizzati. Un progetto in cui l’attacco al contratto nazionale, al diritto di sciopero, alla magistratura, alla libertà di stampa, il razzismo di stato, le politiche securitarie, l’attacco alla laicità dello stato e all’autodeterminazione delle donne, costituiscono le varie facce di uno stesso disegno: la distruzione delle autonomie dei soggetti sociali e la gestione autoritaria della frantumazione del conflitto, nel superamento sostanziale del quadro costituzionale nato dalla lotta antifascista.
Berlusconi usa quindi la crisi come “crisi costituente”, puntando alla realizzazione di un organico disegno di destra, in cui le politiche economiche, sociali e i modelli ideologici di riferimento hanno un elevato grado di coerenza interna. Questo disegno dobbiamo contrastare e sconfiggere nella piena consapevolezza che le opposizioni parlamentari, divise tra un centro cattolico, un centro sinistra moderato e un centro sinistra populista, non sono in grado di contrastare efficacemente il governo perché non sono portatrici di un progetto alternativo di uscita dalla crisi. Parallelamente le ipotesi alternative al berlusconismo che stanno maturando nelle classi dirigenti e nella stessa maggioranza parlamentare, non hanno oggi forza politica autonoma. L’uscita a sinistra dalla crisi e la sconfitta del berlusconismo, nel suo impasto clerical-fascista di politiche antidemocratiche, classiste e sessiste, sono quindi, gli obiettivi immediati che abbiamo dinnanzi.

Ripartire dal conflitto sociale

Il principale terreno di iniziativa politica è quello della costruzione dell’opposizione sociale. Il governo ha meno difficoltà a reggere lo scontro politico ma è invece assai vulnerabile sul terreno sociale. I caratteri populistici del berlusconismo reggono la polemica politica, assai meno la contestazione scoiale. Anche per questo motivo, l’organizzazione consapevole del conflitto sociale è la nostra priorità politica di fase.
Le vertenze, le mobilitazioni e le pratiche di conflitto delle ultime settimane segnano un punto di svolta anche sul terreno simbolico. L’azione collettiva può tornare ad essere nella coscienza di massa strumento efficace per il cambiamento: il caso della INNSE ha evidenziato in modo plastico questa possibilità.


E’ quindi decisivo che le lotte per l’occupazione non vengano lasciate sole, che si costruisca il massimo di visibilità della lotta, di solidarietà attorno ad esse.
La costruzione di una efficace risposta di lotta, fabbrica per fabbrica, provveditorato per provveditorato, quartiere per quartiere è un punto di partenza decisivo per arrivare alla connessione delle lotte, alla costruzione dei comitati unitari contro la crisi e di un movimento politico di massa per l’uscita dalla crisi da sinistra.
Il blocco dei licenziamenti, l’assunzione dei precari nella scuola e nel pubblico impiego, l’estensione degli ammortizzatori sociali a tutti i lavoratori e le lavoratrici che perdono il posto di lavoro, la creazione di un salario sociale per le/i disoccupate/i, la richiesta di un aumento salariale e del trattamento pensionistico generalizzato, la lotta alla precarietà, sono i punti principali della costruzione di un movimento di massa che coinvolga lavoratrici/ori, occupate/i, cassaintegrate/i, licenziate/i, disoccupate/i. La costruzione di un movimento di massa è l’obiettivo, il suo punto di partenza sono le singole lotte.
Il partito deve ritrovare la sua utilità sociale dentro questo processo.
Così come è fondamentale il ruolo della Cgil e dei sindacati di base.
Per la CGIL è necessaria una chiarificazione di fondo che la faccia uscire dal guado. Nella situazione attuale infatti la Cgil si oppone giustamente alle politiche del governo ma senza mettere in campo una politica sindacale in grado di costruire i rapporti di forza con cui contrastare il governo.
Il punto su cui riteniamo necessario lavorare è quello della massima unità delle forze politiche e sindacali nella costruzione di una efficace mobilitazione sociale contro la crisi, il governo e la Confindustria.


La cura nella costruzione delle lotte, la proposizione delle forme di lotta più radicali come più efficaci, la definizione della piattaforma sindacale più avanzata costituiscono punti decisivi ma non sufficienti: occorre avanzare una proposta di uscita da sinistra dalla crisi che abbia le caratteristiche dell’alternativa, di un diverso progetto di società, la cui qualità non è misurabile in termini di PIL. Di fronte al fallimento della globalizzazione capitalistica abbiamo l’obbligo di proporre una alternativa al berlusconismo e ai cedimenti e ai balbettii della sinistra moderata e populista. La costruzione delle lotte e del progetto di alternativa sono i terreni su cui partire per costruire l’unità di tutte le forze della sinistra anticapitalista. C’è uno spazio enorme lasciato vuoto da un PD che non sa produrre una opposizione efficace avendo proposto per oltre un decennio una versione morbida del neoliberismo che ci ha portati dentro la crisi.
Il progetto di uscita a sinistra dalla crisi si deve basare su alcuni punti di fondo: redistribuzione del reddito e lotta all’evasione fiscale, redistribuzione del lavoro con riduzione dell’orario di lavoro, intervento pubblico in economia finalizzato ad una riconversione ambientale e sociale della produzione, superamento della divisione sessuata del lavoro di riproduzione sociale, allargamento dei beni comuni, drastica riduzione delle spese militari e riconversione dell’industria bellica.

In questa prospettiva dobbiamo avanzare alcune proposte di legge su cui fare una campagna di massa: estensione degli ammortizzatori sociali alle categorie di lavoratrici e lavoratori che attualmente ne sono escluse e salario sociale alle/ai disoccupate/i; superamento della legge 30 e della Bossi Fini; contrasto alle delocalizzazioni produttive; estensione e miglioramento della Prodi bis con previsione dell’intervento pubblico nella gestione delle aziende in crisi; difesa del contratto nazionale e estensione della democrazia sui posti di lavoro; piano di riconversione ambientale delle produzioni; rilancio della sanità pubblica; piano di manutenzione straordinaria degli edifici pubblici e loro alimentazione con energia solare.

Questi contenuti programmatici, di contrasto alla crisi e di rilancio del welfare, devono anche costituire il terreno su cui aprire il confronto nella sinistra e incalzare il centrosinistra in vista delle elezioni regionali.


Costruire la Federazione della sinistra di alternativa


Il Cpn decide di assumere l’indirizzo emerso nell’assemblea del 18 luglio scorso di porsi l’obiettivo della costruzione della federazione della sinistra di alternativa. Nella piena conferma del mantenimento del Partito della Rifondazione Comunista per l’oggi e per il domani, la scelta della federazione è quella della costruzione di una soggettività politica avente una massa critica efficace al fine di costruire un polo di sinistra anticapitalista autonomo dal PD e alternativo al suo progetto strategico.

Anche i recenti risultati elettorali della Linke nelle elezioni regionali indicano, nel permanere delle due sinistre, la necessità di questo processo unitario, di aggregazione delle forze della sinistra anticapitalista e comunista; un processo credibile se basato su un programma realmente alternativo, che coinvolga sin dall’inizio in modo aperto tutte le forze politiche, sociali, culturali, associative, singole e singoli disponibili a costruire un polo politico autonomo dal Pd e portatore di un progetto strategicamente alternativo. Un polo della sinistra di alternativa che - nel quadro delle due sinistre - assuma come fondative e discriminanti la connessione tra anticapitalismo, critica al patriarcato, riconversione ambientale e sociale dell’economia, antirazzismo, pacifismo, solidarietà internazionale, lotta contro l’omofobia, critica della politica come attività separata.
Se l'alternatività dei contenuti, del programma, delle proposte è l'elemento centrale, non secondaria è la modalità con cui si procede nel dare vita alla Federazione.
Si tratta di una proposta unitaria, volta ad archiviare una stagione di scissioni, che può darsi solo come processo partecipato e democratico, che deve coinvolgere a pieno titolo e sin dall'avvio tutte le realtà disponibili sia a livello nazionale che territoriale, recuperando le relazioni e le sperimentazioni della Sinistra Europea; un processo realmente partecipato da costruire sulla base di un lavoro politico comune, articolato e sperimentato nei territori e radicalizzato nei conflitti, a partire dalle lotte per il lavoro e per la giustizia sociale.

Per questo è necessario costruire, con tutti coloro che sono disponibili nazionalmente e localmente, assemblee territoriali di presentazione ed articolazione della proposta della Federazione. Tale percorso deve partire da subito in modo da rendere possibile un primo momento di bilancio con una assemblea nazionale prevista per fine autunno.
Il CPN dà inoltre mandato alla segretaria di comporre, con le altre forze che promuovono la Federazione, i due gruppi di lavoro indicati dall'assemblea del 18 luglio, al fine di predisporre una bozza di "Manifesto"della Federazione e di "regole"per il funzionamento della stessa.


Sconfiggere il bipolarismo per uscire dalla seconda repubblica berlusconiana

I due obiettivi principali dell’autunno sono la costruzione di un efficace conflitto sociale e l’avvio del processo di costruzione della federazione della sinistra di alternativa. In sinergia con questi obiettivi, occorre aprire una campagna di massa, che duri nel tempo, contro il sistema bipolare e contro questa legge elettorale che consegna nelle mani di pochi oligarchi la definizione di tutti i parlamentari. Il bipolarismo è il contesto in cui il populismo berlusconiano è nato e ha potuto esercitare il suo potere. In un sistema proporzionale Berlusconi – che è minoranza nel paese – non avrebbe la maggioranza dei parlamentari, non avrebbe il potere che ha ora e non sarebbe in grado di tenere unita la destra sotto la sua guida.
Il superamento del bipolarismo, la conquista di un sistema proporzionale “alla tedesca”, l’uscita dalla seconda repubblica, costituiscono un passaggio fondamentale per sconfiggere il berlusconismo e per superare questo “bipolarismo tra simili” che è alla base della crisi della politica e della sinistra.
E’ del tutto evidente che il bipolarismo, producendo una alternanza che ha visto i poteri forti stabilmente al centro del sistema, ha contribuito non poco alla distruzione della credibilità della politica. Nel sistema italiano l’alternanza non si è in alcun modo declinata come l’anticamera dell’alternativa ma anzi ha compromesso le ragioni e la forza dell’alternativa.
In secondo luogo, il bipolarismo, in presenza di una destra fascistoide come quella di Berlusconi, ha continuamente messo la sinistra di alternativa di fronte ad un bivio suicida: o fare l’accordo con le forze della sinistra moderata per battere le destre, trovandosi poi a gestire il paese su posizioni e con un personale politico impresentabile, oppure non fare l’accordo ed essere immediatamente additata come responsabile della vittoria di Berlusconi o in ogni caso considerata come voto “inutile”.
Dobbiamo lavorare a rompere questo meccanismo perverso, per la democrazia del paese e per la possibilità di costruire una sinistra in grado di costruire l’alternativa nel paese.

Nella piena consapevolezza che non esistono i presupposti per costruire una coalizione politica per governare il paese con le forze dell’attuale opposizione parlamentare, proponiamo quindi di costruire un accordo elettorale tra tutte le forze di opposizione disponibili a dar vita ad una brevissima legislatura di salvaguardia costituzionale. Un accordo che permetta di mettere in minoranza Berlusconi al fine di approvare una nuova legge elettorale proporzionale e una legge sul conflitto di interessi, per poi tornare a votare con le nuove regole.
Sconfiggere Berlusconi e superare la gabbia del bipolarismo costituiscono i nostri obiettivi di fase sul piano istituzionale.


Costruire l’alternativa, rilanciare la rifondazione comunista

E’ del tutto evidente che il berlusconismo non è solo un fenomeno istituzionale ma è l’autobiografia della nazione. La sconfitta del berlusconismo deve avvenire su tutti i piani: sociale, politico, culturale.
Da questo punto di vista, il rilancio della rifondazione comunista è un punto centrale perché solo dalla rinnovata critica del capitalismo e del patriarcato può nascere un pensiero che sia in grado di contrapporsi efficacemente ai valori di individualismo egoista ed impaurito che caratterizzano la crisi sociale e civile in cui prospera il berlusconismo.
Ci impegniamo quindi a rilanciare il processo della rifondazione comunista, a costruire momenti di elaborazione e di dibattito, al fine di costruire un progetto politico che sia in grado di presentare una sua analisi, una sua lettura della situazione attuale, una sua proposta non solo politica ma anche etica. Con ogni evidenza la crisi che viviamo oggi è sociale e morale, vede la distruzione di valori sino a poco tempo fa dati come condivisi, in un contesto in cui l’intolleranza, il razzismo e l’omofobia permeano significativi strati sociali. Per questo una proposta di alternativa non si situa solo a livello dei provvedimenti economico-sociali, ma pone il tema della ricostruzione del tessuto sociale in termini di civiltà di intreccio tra eguaglianza, differenza e rispetto delle diversità.
Il rilancio della rifondazione comunista non si può quindi esaurire nella pur necessaria verifica critica della nostra storia ma deve misurarsi sulla costruzione di una nuova narrazione, di un “pensiero forte” che sappia consolidare gli elementi essenziali di una cultura politica all’altezza dei tempi, capace di valorizzare le esperienze anticapitalistiche che maturano sul piano internazionale, tra cui spicca la costruzione del socialismo del XXI secolo che i compagni e le compagne latinoamericani hanno posto all’ordine del giorno.


Costruire la gestione unitaria del partito

Il Congresso di Chianciano non ha indicato solo una linea politica, che ribadiamo e che in questi mesi è venuta arricchendosi grazie all’apporto di tutti i compagni e le compagne ( basti pensare alla proposta della federazione), ma ha anche proposto immediatamente la gestione unitaria del partito. Questa non è stata immediatamente possibile e anzi abbiamo subito una scissione dolorosa quanto dannosa. Il tema della gestione unitaria è stato rilanciato dall’ultimo Comitato Politico Nazionale con un deliberato specifico. Oggi possiamo raccogliere i frutti di una lavoro unitario fatto in questi mesi con l’allargamento della segreteria e l’ingresso nella stessa di due compagni e compagne della seconda mozione.

Il rilancio della gestione unitaria si basa su due considerazioni:
- vi sono la necessità, l'urgenza, l'interesse , di valorizzare tutte le intelligenze, le energie, le disponibilità, le capacità, nella costruzione/definizione dei gruppi dirigenti. Il nostro partito ha bisogno di tutte e tutti.
- questo è obiettivamente possibile perché vi è una piattaforma politica largamente condivisa il cui sforzo di realizzazione e di proposizione all'esterno per la costruzione di azione sociale consapevole, deve prevalere su elementi di differenza che possono permanere.
La scelta della gestione unitaria è per noi da attuare sempre, ad ogni livello del partito, anche in risposta alle grandi difficoltà che stiamo affrontando.

La scelta che facciamo oggi di allargamento della segreteria vuole essere un segnale a tutto il partito per arrivare a ogni livello di direzione politica a forme di gestione unitaria e alla valorizzazione piena di tutti i compagni e le compagne. Con questa decisione vogliamo chiudere gli strascichi di un congresso durato troppo a lungo e impegnarci unitariamente per il pieno rilancio del Partito che passa anche attraverso un impegno straordinario – che dobbiamo realizzare in questi mesi – per il tesseramento e il sostegno a Liberazione. Ci siamo dovuti impegnare – subito dopo il congresso di Chianciano – per contenere i danni di una sciagurata scissione, così come siamo dovuti intervenire su Liberazione e sull’apparato centrale del partito per evitare che si creasse una situazione economica insostenibile per il partito.
Tutto questo è alle nostre spalle. Oggi occorre quindi lavorare per ricostruire il partito. E’ importante, a partire dalle assemblee sul tesseramento che si terranno a settembre e dal convegno nazionale che si terrà a metà ottobre, che tutto il partito si impegni per una grande campagna di iscrizione al partito e di diffusione di Liberazione.

Approvato con 109 voti favorevoli