di Giovanni Russo Spena
Il voto parlamentare su Nicola Cosentino ha scritto una pessima pagina per le istituzioni ma anche per l’etica pubblica. Il governo si fa più “casalese”. E, in nome di un presunto garantismo che in questo caso non c’entra nulla (ma che si chiama impunità e arroganza del potere, coperto dal voto segreto, richiesto non a caso dalla maggioranza), un pugno di parlamentari vota con la maggioranza stessa. L’uso distorto del voto segreto è evidente: da strumento di garanzia per le minoranze esso diventa luogo di scambio e di mercimonio per salvataggi corporativi di un potere distante, oscuro, torbido, indicibile.
Berlusconi si è impegnato molto in questo salvataggio: la sorte giudiziaria di Cosentino gli sta a cuore perché Cosentino è un pezzo del «sistema», come lo chiama Saviano. Berlusconi ha pagato prezzi politici: non raggiunge la maggioranza assoluta nonostante la furiosa e dispendiosa campagna acquisti che giunge sino alla promessa di un indecente rimpasto di governo; finisce nelle mani degli amici di Totò Cuffaro e rafforza politicamente i finiani ma, soprattutto, Berlusconi è disperatamente aggrappato a Bossi, è nella trappola della scalata al potere anche finanziario, alla Cassa Unicredit, da parte della Lega “ladrona”, che accetta di salvare i “ladroni di Roma” ed i parlamentari accusati di connivenza con le mafie in cambio del federalismo secessionista delle zone ricche del Paese.
Nella sua decadenza, che diventa putrescenza, Berlusconi scioglie a destra l’ambiguità e la doppiezza di un populismo che voleva, all’origine, mascherare con pulsioni peroniste. Ora batte un’unica strada, che gli viene affidata dai settori economici di cui il suo governo è “comitato di affari”: massacratore dello stato sociale, dei beni comuni, della scuola pubblica, della condizione lavorativa, della precarietà, diventata vera e propria mutazione antropologica; e inoltre organizzatore del razzismo di stato contro i migranti con accenti nazisti per le deportazioni dei rom.
Anche gli arresti di assessori e di importanti dirigenti politici, nelle ultime ore, alludono ad un punto fondamentale, anche sul piano strategico, per la costruzione di una alternativa democratica: nel Paese è aperta una impressionante e pervasiva “questione morale”. Il governo è tanto più pericoloso perché ne è il cemento e il punto di riferimento. La discriminante è di nuovo, come in altre fasi storiche, il rapporto tra mafie e politica, che coinvolge finanza, appalti, servizi, convenzioni, amministrazioni; lì dove il controllo di legalità è dal potere considerato con enorme fastidio. Attraverso il riciclaggio l’economia mafiosa si confonde con quella legale.
Credo, come Peppino Di Lello, che la più grande legge produttrice di intrecci tra economia legale e mafiosa sia stata la legge del 1992 che ha abolito, in nome del liberismo e del libero mercato, ogni controllo sulla circolazione dei capitali. Stiamo certamente pagando, su questo tema, anche la cultura liberista del centrosinistra, particolarmente ossessionato in quella fase storica.
Questa nuova questione morale ci parla della necessità di opposizione etica, politica, sociale. Ma ci parla anche della necessità di un’agenda parlamentare che, se l’opposizione parlamente non è una finzione per i dibattiti televisivi, bisognerebbe saper imporre, chiamando anche il presidente della Camera Fini ad un esercizio di coerenza sulla sua asserita volontà di legalità. La riforma del reato di voto di scambio è un passo normativo necessario per colpire i legami fra mafie e politica. L’Italia, come ci ricorda Don Ciotti, è uno dei paesi che ha firmato, ma non ancora ratificato, la convenzione penale europea sulla corruzione del 1999 e che ha depenalizzato un reato, il falso in bilancio, molto spesso origine dei fondi neri alla base delle attività corruttive. La proposta di legge sulle intercettazioni, poi, sottrae alla magistratura la possibilità di indagare ed alle cittadine e ai cittadini la possibilità di conoscere.
Oggi verrà assegnato, a Napoli il “Premio Siani” 2010 in ricordo di Giancarlo Siani, un eroe civile, ucciso dalla camorra. Fu un giovane amico, grande cronista che tentò di comprendere ed illustrare la geografia della camorra. Lo uccisero il 23 settembre del 1985 perché aveva denunciato il legame con il potere del clan di Torre Annunziata. Così come ci sentiamo tutti oggi Domenico Lopresto, il segretario dell’Unione Inquilini di Napoli, selvaggiamente picchiato dalla camorra per un motivo molto semplice: perché faceva “antimafia sociale”, perché, organizzando inquilini poveri e senza casa, affermava il diritto all’abitare, intralciando i traffici delle organizzazioni criminali e delle amministrazioni colluse. Organizzare presidii di democrazia sul territorio è il vero antidoto alle mafie. Domenico ce lo ricorda.
su Liberazione (23/09/2010)
su Liberazione (23/09/2010)
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