venerdì 25 giugno 2010

Da Genova '60 a Pomigliano 2010. Il vizio eversivo della borghesia

di Tonino Bucci

A ricordare oggi i fatti del luglio 60, c'è di che riflettere sulla memoria pubblica di questo paese. Dalla scomparsa del Pci a oggi è pressoché sparita, dalla coscienza storica, degli italiani, ogni traccia degli eventi di quei giorni di cinquant' anni fa. Poco o nulla resta, sul piano simbolico, degli scioperi e delle manifestazioni popolari contro il governo allora guidato dal democristiano Fernando Tambroni, appoggiato dall'esterno dall'Msi. Una flebile traccia delle repressioni sanguinose della polizia contro i cortei operai rimane nella canzone politica. Eppure nessuno si meraviglierebbe se un ventenne di oggi, a differenza di un ventenne degli anni Settanta, non dovesse conoscere a menadito i versi cantati da Fausto Amodei in Per i morti di Reggio Emilia: «Compagno cittadino fratello partigiano / teniamoci per mano in questi giorni tristi / Di nuovo a Reggio Emilia di nuovo là in Sicilia / son morti dei compagni per mano dei fascisti».

Ma all'immaginario ventenne del nostro tempo non se ne può fare una colpa. Non è una responsabilità sua se la memoria pubblica ha smesso di trasmettersi da una generazione all'altra. Il meccanismo si è inceppato per cause che ben poco, anzi nulla hanno a che fare con l'indisponibilità soggettiva a conoscere come si sono svolti eventi altamente simbolici del nostro passato. Naturalmente, la scrittura della storia non è un atto neutrale. Come non vedere, ad esempio, la funzione politica del revisionismo storico di cui la destra italiana è stata principale artefice in questi ultimi decenni? Lo smantellamento della memoria resistenziale è andata di pari passo con la legittimiazione degli ex missini come personale di governo. «Chi controlla il passato, controlla il futuro, diceva Orwell. Di questa riscrittura della storia - per dirla con le parole di Paolo Ferrero che ieri ha presentato un ciclo di iniziative del Prc (1960-2010 la Resistenza continua) - l'obiettivo principale è cancellare la memoria delle lotte sociali e il ruolo che comunisti e socialisti hanno avuto nella difesa della Costituzione». Dell dopoguerra «si dà l'immagine di un'epoca di progresso continuo sotto il governo della Dc. E invece le spinte repressive e antioperaie erano fortissime». Nel revisionismo storico scompare pure il ruolo storico del Mezzogiorno, laboratorio di lotte, di occupazioni delle terre, fucina di formazione di sindacalisti e quadri politici, di comunisti e socialisti. «Nella vulgata è passata invece l'idea di un Mezzogiorno normalizzato, senza conflitti sociali e politici. In realtà, il livello di repressione nel sud, soprattutto in Sicilia, è stato altissimo. In molti casi, frutto di un intreccio tra mafia e forze di polizia. Spesso si tratta di morti dimenticati. E' persino difficile mantenere le lapidi che li ricordano».

La ricostruzione della storia italiana in chiave revisionistica è avvenuta anche per la miopia - o per la subalternità culturale - della sinistra moderata, «fin da quando Luciano Violante diede la stura per l'equiparazione tra partigiani e repubblichini». Leggiamoli più da vicino i fatti del luglio 60. Il 30 giugno di quell'anno c'è la convocazione del congresso dell'Msi a Genova, città medaglia d'oro alla Resistenza. C'è una fortissima mobilitazione operaia e popolare, in particolare i portuali. Ci sono scontri durissimi con la polizia, con morti e feriti. Lì c'è l'esordio di un nuovo protagonista, i ragazzi con le magliette a strisce. Nei giorni a seguire si svolgono anche in altre città manifestazioni popolari di protesta. Scendono nelle piazze lavoratori, sindacati, parlamentari dell'opposizione comunista e socialista. Intanto il livello della repressione da parte della polizia si fa durissimo. E' la fase di scontro nel paese più aspro dai tempi dell'attentato a Togliatti. Il 5 di luglio a Licata, in Sicilia, c'è una manifestazione contro il carovita e la disoccupazione. La polizia interviene e uccide un manifestante, accorso in aiuto di un bambino picchiato dalla Celere. Il sette luglio a Reggio Emilia la polizia carica un corteo contro il governo Tambroni e uccide cinque persone, cinque operai tutti iscritti al Pci. Della strage rimarrà il ricordo nei versi della canzone di Fausto Amodei, Per i morti di Reggio Emilia. Come pure resterà nella memoria collettiva l'immagine più nitida di quei tempi, quella dei caroselli delle jeep della Celere tra i manifestanti. L'8 luglio a Palermo c'è lo sciopero generale proclamato dalla Cgil. Un'altra carica della polizia, altri quattro morti. Nel pomeriggio per protesta si forma una manifestazione davanti al municipio. La polizia spara per disperdere i manifestanti. Ci sono trecento fermi, quaranta persone medicate per ferite da anni da fuoco. Sempre l'8 luglio, a Catania, per lo sciopero della Cgil, intervengono le forze dell'ordine. Un edile è massacrato a manganellate e finito con un colpo di pistola. Ci sono scontri anche a Roma dove è solo per caso che non ci scappa il morto. E' Raimondo d'Inzeo, un campione olimpionico di equitazione, oltre che comandante di un reggimento di carabinieri, a guidare la carica a cavallo su un corteo al quale partecipano anche parlamentari dell'opposizione. I contrasti crescono per anche all'interno della Dc. Dopo qualche giorno Tambroni si dimette e il governo cade. Questa è la storia, da qui iniziano le analogie tra presente e passato. «C'è una relazione - dice Ferrero - tra le battaglie di cinquant'anni fa e quelle che ci sono oggi, che di nuovo intrecciano la difesa della democrazia con le questioni sociali». Dalla protesta contro la legge-bavaglio alla resistenza degli operai di Pomigliano contro l'accordo-ricatto della Fiat c'è un sottile filo che ricorda lo scenario del luglio 1960. Con alcune differenze, certo. «Oggi la repressione si scatena più sulle figure marginali, come Cucchi e Aldovrandi», relegate alla cronaca quotidiana. Anche oggi, c'è un'emergenza sociale, «la disoccupazione tocca livelli altissimi, il disagio è forte ma, rispetto ad allora, non ha strade politiche in cui esprimersi efficacemente». Anche le forme della repressione - a differenza di cmquant'anni fa - sono più sofisticate. Pomigliano docet. «C'è stato un ricatto di tipo mafioso da parte della Fiat. Il ruolo dei mass media pure, è stato determinante nel costruire l'idea che non ci fossero alternative tra l'accettare l'accordo o perdere il posto di lavoro. Il risultato del referendum tra i lavoratori ha rispedito al mittente l'intera operazione». I segnali di un clima antioperaio ci sono tutti: «il governo dice che bisogna modificare l'articolo 41 della Costituzione e la parte sui rapporti sociali. La Fiat si produce in un colpo di teatro con un diktat che mette in discussione le norme costituzionali sul diritto di sciopero. Draghi, cioè, Bankitalia si lamenta degli eccessivi vincoli in Italia per le aziende». La scena finale del copione prevedeva un plebiscito dei si tra i lavoratori. «Marchionne ha tentato un'operazione politica. Ma gli è andata male e ha perso».

Di analogia in analogia, questa miscela tra gruppi industriali e destra politica rinvia di nuovo alle vicende di cinquant'anni fa. Anche allora il governo Tambroni non fu un fulmine a ciel sereno, per il semplice fatto che era l'espressione politica di una parte della società italiana, sostenuta da gruppi industriali è apparati della pubblica amministrazione. Dietro Tambroni c'era un'Italia che non aveva digerito la Resistenza, l'Italia della borghesia e dei ceti medi. Oggi come allora, il tambronismo rimane il vizio d'origine delle classi dirigenti italiane, il segno di un sovversivismo che non esita a disfarsi della regole costituzionali pur di mettere a tacere il conflitto sociale. Siamo l'unico paese in Europa ad avere «una destra che non ha confini alla propria destra».

da Liberazione (25/06/2010)

domenica 20 giugno 2010

Pomigliano, verrà il tempo del riscatto


di Dino Greco

In prossimità del 22 giugno - quando gli operai della Fiat di Pomigliano saranno chiamati a sottoscrivere il proprio solenne atto di sottomissione e di rinuncia a tutto ciò che distingue un lavoratore da una bestia da soma e, per sovraprezzo, a ringraziare l’azienda che in cambio di lavoro servile continuerà a elargire loro un pezzo di pane - abbiamo ascoltato due pronunciamenti che meritano qualche considerazione.
Il primo è di Walter Veltroni il quale ieri, ha spiegato, in una lunga intervista al Corriere della Sera, che la Fiat non ha compiuto alcun ricatto. L’ultimatum che essa ha rivolto ai suoi dipendenti e alle loro organizzazioni sindacali non sarebbe infatti che «il frutto di una condizione obiettiva, figlia della globalizzazione diseguale». Come dire: se la competitività planetaria fra imprese (elevata a universale criterio regolatore delle relazioni civili) colloca salario e diritti al livello più basso imposto dal mercato, non resta che inchinarvisi. Ma in Veltroni vi è qualcosa di più e di altro che una mesta rassegnazione. C’è l’intima convinzione che quella soluzione vada proprio bene, che la filosofia del Lingotto parli il linguaggio della modernità e che ciò di cui sono privi la sinistra-sinistra e il pezzo di sindacato che rimane pervicacemente classista, è lo «spirito di innovazione».

Inutile scavare dentro questa formula così oscura. Non vi si troverebbe niente, se non la convinzione che la borghesia industriale, illuminata e lungimirante, incarna la quintessenza del progresso, mentre gli operai, attardati nelle fumisterie ideologiche del tempo che fu, dovrebbero abbandonare la pretesa di esprimere un punto di vista collettivo, una soggettività sindacale e politica, perchè figli di quella pratica del conflitto sociale che già Berlusconi aveva rottamato nel discorso ai padroncini della Confartigianato. Come si vede, un pensiero squisitamente moderno che torna a trattare il proletariato, <+Cors>mutatis mutandis<+Tondo>, come plebe succube e questuante. Poi, Veltroni, forse sfiorato dal dubbio che l’annichilimento del contratto nazionale e la confisca del diritto di sciopero non rappresentino esattamente un fatto di civiltà, si affretta a raccomandarci di non considerare la soluzione di Pomigliano «un modello», destinato a diffondersi e a cambiare in radice i rapporti sociali in Italia. Per l’uomo di tutte le abiure, siamo soltanto di fronte ad una “contingente necessità”...
Il secondo pronunciamento, una breve dichiarazione, per la verità, è di Guglielmo Epifani, che ha sentito il bisogno di preconizzare la vittoria del “sì” nell’imminente referendum.
Vale a dire la “previsione” che il ricatto sui lavoratori avrà un’efficacia dirompente e che il baratto nefasto, lavoro contro diritti, un’elemosina contro la rinuncia alla libertà, avranno libero corso.
Ora, ci sono scommesse che la drammaticità della situazione consiglierebbe di evitare, soprattutto al segretario della Cgil, soprattutto mentre Marchionne percuote sulla bilancia la sua “spada di Brenno” e lavora per ricacciare fuori dai cancelli della fabbrica quella Costituzione che imponenti stagioni di lotta e lo Statuto dei lavoratori avevano fatto entrare.
Per fortuna c’è, in questo catastrofico scenario, un’altra notizia che parla, questa sì, di modernità, di futuro. E soprattutto di dignità. A Melfi, l’altro grande complesso Fiat del Sud, nella rielezione delle Rsu, la Fiom è divenuta il primo sindacato, da terzo che era. Potrà anche essere che a Pomigliano i lavoratori, stretti nella tenaglia, finiscano momentaneamente per soccombere. Ma ognuno di loro conosce bene, in cuor proprio, chi li potrà difendere e aiutare a guadagnarsi il riscatto, quando sarà il momento. E quel tempo, potete esserne certi, prima o poi verrà.

pubblicato su Liberazione (18/06/2010)

martedì 8 giugno 2010

Età pensionabile delle donne. Una storia grave e grottesca, dentro l’Italia e l’Europa avviate sulla strada della distruzione dello stato sociale.

di Roberta Fantozzi

Tutta la vicenda dell’aumento dell’età pensionabile delle donne e del rapporto tra l’Europa e il governo italiano è grottesca oltre che gravissima. Si vuole far passare per forza l’aumento dell’età pensionabile per le donne – accelerato dalla manovra - a dispetto di ogni coerenza di ragionamento, a dispetto di ogni logica.

Tutto è iniziato con la procedura aperta contro l’Italia, motivata in sede europea dalla necessità di contrastare ogni politica discriminatoria: in particolare di non discriminare le donne, obbligandole ad andare in pensione anticipatamente e dunque con pensioni più basse. Ai rilievi avanzati in sede europea, i diversi governi in carica, tutti a guida di Silvio Berlusconi non hanno risposto, come accaduto nel 2005, oppure hanno risposto in maniera omissiva. Non si è cioè fatto valere il dato di fatto elementare che le donne nel nostro paese non sono obbligate ad andare in pensione anticipatamente, ma possono farlo se lo scelgono, come disposto dalla legge 903 del 1977 e che dunque non si tratta di discriminazione, ma di una possibilità, di un’ opportunità positiva. Esiste inoltre una direttiva dell’Unione Europea, la 79/7 del 1978 che intervenendo sull’obbligo di rimuovere ogni discriminazione, lascia salva la possibilità per gli stati di fissare età pensionabili diversi tra i sessi. Ma i governi italiani non sono riusciti, o non hanno voluto dimostrare, che a quella direttiva ci si doveva riferire. In questo modo, e cavillando sulla differenza tra settori in cui lo stato è datore di lavoro diretto e quelli in cui non lo è, si è arrivati alla sentenza della Corte di Giustizia Europea.

In sostanza Berlusconi che dovrebbe rispondere politicamente del comportamento tenuto dai diversi governi di cui è stato a capo, ora può farsi scudo dell’Europa. E l’Europa che ha deciso oggi la linea della distruzione dello stato sociale, può farsi scudo del comportamento dei governi Berlusconi. Non si comprenderebbe altrimenti perché tutta la vicenda assuma questa rilevanza, anche a fronte del fatto che come ricordava giustamente qualche giorno fa la segretaria della Funzione Pubblica Cgil Rossana Dettori, l’Italia negli ultimi due anni è stata soggetta a oltre 150 procedure di infrazione, di cui più di 60 ancora in corso. In questa morsa finisce stritolata la sostanza di ogni equità. La manovra del governo, che ora dovrebbe decidere l’accelerazione dell’allungamento dell’età pensionabile per le donne del pubblico impiego dal 2018 al 2012, è un manifesto contro le donne. Lo è con i “risparmi” sulle pensioni in buona parte derivanti dal posticipo delle pensioni di vecchiaia, che colpirà soprattutto le donne cioè quelle che più accedono al trattamento di vecchiaia, non riuscendo a raggiungere i requisiti contributivi per l’anzianità. Lo è con i tagli alla scuola e al pubblico impiego. Lo è con i tagli pesantissimi alle regioni e agli enti locali. Le donne, la cui vita in Italia, è segnata in maniera particolarmente grave da un’insieme di fattori negativi, tanto materiali quanto culturali e simbolici. In un paese che è tra gli ultimi in Europa per occupazione femminile con meno di una donne su due che lavora, con differenziali di carriera e retributivi medi intorno al 20%. Le donne su cui si scarica il peso del lavoro domestico e di cura – più di 5 ore di media al giorno contro un’ora e mezzo degli uomini - anche in ragione di uno stato sociale sottofinanziato, altra faccia della medaglia del primato italiano di evasione fiscale.

La scelta che i paesi europei e l’Italia stanno compiendo, di politiche iper- restrittive avviterà l’economia del continente in una spirale recessiva sempre più grave. I tagli non serviranno per ridurre l’indebitamento, ma distruggeranno quel che resta del welfare europeo: i sistemi pensionistici, sanitari, formativi. Di questo si tratta. E con questo, dell’imbarbarimento complessivo della società, della qualità della vita delle donne, della qualità delle relazioni tra donne e uomini. Ed anche della democrazia, che non potrà sopravvivere, come l’abbiamo conosciuta ad un processo di gerarchizzazione sociale sempre più feroce. Ribellarsi è giusto.